La Domenica di Bellerofonte parte 21

Si è parlato molto di Lotta Continua e dell’omicidio Calabresi, di seguito troverete ulteriori tre passi (ultimi in senso cronologico) di quella vicenda non ancora del tutto chiarita.

Quella che segue è parte della lettera scritta per il Foglio da Sofri in un indiretta risposta al libro di Mario Calabresi, intitolata “lettera aperta ad un aspirante assassino”.

I grandi quotidiani e i media hanno giustamente celebrato Calabresi, e poi hanno steso un omissis su Sofri, il suo principale destinatario, che è collaboratore di metà delle testate che contano: il quotidiano più venduto di centrosinistra, il più venduto settimanale di centrodestra, e il più pesante quotidiano d’opinione di centrodestra. Di seguito troverete poi due risposte dirette a Sofri da parte di Luca Talese e Franco Berardi.

Non dimenticandovi che un ulteriore tesi ritiene che quell'omicidio sia stato ordinato dalla CIA in quanto soltanto 10 giorni prima era stato lasciato morire in carcere un giovane anarchico Franco Serantini, arrestato a Pisa in una manifestazione antifascista, repressa come ancora non si era mai visto in Italia. Per non condizionare il voto fu tenuto in carcere ed invece aveva bisogno di cure urgenti, morì Serantini, la DC vinse le elezioni ma il vespaio si sollevo lo stesso, intervenì persino Terracini uno dei padri della costituzione ed i giornali dell'epoca non parlavano d'altro, ma solo per 10 giorni. Il caso Calabresi gli rubò i titoli sui giornali e vennero fatte ipotesi di vendetta da parte di LC, che non smentì affatto, LC divenne importante per tutte le fazioni exstraparlamentari e Sofri non seppe rinunciare alla notorietà che gli portò in termini politici quel fatto di cronaca, per questo non l'ha mai smentito con forza, come ha fatto con la strage di Peteano fatta con superficiale organizzazione credendo che lotta continua non l'avrebbe smentito come fece con Calabresi, che fu giustiziato per interrompere l'onda mediatica e lo sbigottimento generale per l'omicidio Segantini, ci riuscirono e gran parte del merito andrebbe attribuito a Sofri.



Ometto le prime cento righe della lettera di Sofri e riporto qui sotto un paio di passaggi decisivi..

(…)“Nel periodo in cui lo stato faceva male, e noi ci vendicavamo con il rincaro delle parole, avemmo per la prima volta, davanti agli occhi una vedova, due orfane. La vedova si chiamava Licia Pinelli, le orfane Silvana e Claudia, avevano otto e nove anni. Chi torni a sfogliare la collezione di Lotta Continua per cercare di ricostruire l’aria disperata di quel tempo, troverà un disegno su un foglio di quaderno a quadretti, e la grafia infantile che dice: 1Ieri, quindici dicembre 1969, hanno ucciso mio padre1. C’è un problema in più, con i destini come Pinelli. Che non rientrano nella categoria delle vittime del terrorismo, e nemmeno delle vittime. Non c’è riconoscimento dello stato, non c’è risarcimento. L’accusa contro i miei amici e me accomunava per il movente, Pinelli e Segantini. Franco Serantini, appunto, senza famiglia, orfano da orfanotrofio. Fu massacrato dai poliziotti in strada e in questura, abbandonato, a crepare in una della di isolamento. In che giorno della memoria toccherà a lui? Perché ti scrivo ragazzo? Non solo. Un po’ per parlare ad altri. Del resto le lettere pubbliche non si scrivono mai al loro destinatario ufficiale. Parlano ad altri”.

(…)“Non eravamo dei pazzi noi, nemmeno quando pensavamo e dicevamo cose da pazzi. Eravamo capaci di intendere e di volere. Non erano pazzi nemmeno quelli che firmavano gli appelli, che oggi si leggono con raccapriccio. Non c’entrai niente, e non avrei dato nessun peso a quell’appello e a quelle firme, ero troppo pieno di me e di noi. C’erano ottocento firme, anche le più illustri, anche le più degne. Si sa, le firme agli appelli, a quel tempo e sempre: uno non chiede nemmeno cosa dica, chiede chi altri ha firmato. Si sa, ti chiamano al telefono, dici sì per liberartene. Qualcuno ancora oggi protesta che gli fu estorta la firma. Però non può essere tutto qui. Non doveva essere facile estorcere firme, o carpirgliele sotto il naso a persone che si chiamavano Primo Levi o Giorgio Amendola, o Giancarlo Paletta.

Intanto non c’erano allora i morti ammazzati per mano privata, ed erano, per lo più, ancora impensabili. C’erano tutti quei morti di stato, nella banca e nella questura. C’era uno scandalo che faceva soffocare. E credo che quelli anche quegli illustri (illustri davvero) firmatari ricorressero a loro modo, al rincaro delle parole. C’era scritto in quell’appello, “torturatore” ed “assassino”. Come potevamo crederci? – ci si chiede oggi. Come potremmo non crederci? Si pensava allora.

Non sto affatto evocando l’aria del tempo per riscattare errori e colpe. Leggendo il libro di Mario Calabresi mi sono chiesto ancora una volta se e come pensassimo alla famiglia del commissario. Non ci pensavamo, io non ci pensavo. Tuttavia altri vicino a me, ebbero quel pensiero, e lo espressero. Dunque si poteva, e si doveva fare. Mario Calabresi ha trovato su un numero del nostro giornale del ’70 una vignetta in cui suo padre gli insegnava a giocare con la ghigliottina. (in realtà la vignetta disegnava una bambina, citando una notizia sbagliata di Panorama). Era agghiacciante. Non per noi. Il disegnatore si proponeva proprio le provocazioni più insopportabili, che spingessero alla querela. Si chiamava Roberto Zamarìn, morì presto, una notte in cui correva nella nebbia per portare il giornale alla distribuzione. Mi vergognerei se non ripetessi oggi che era un uomo meraviglioso (…).

Noi avevamo smesso di chiamarla “Strage di stato”, per stanchezza, per rigetto, quando cominciarono i magistrati competenti a chiamarla così. E’ diventata la dizione di ufficio. Luigi Calabresi era un “fedele servitore dello Stato”, come recitano oggi le lapidi? Sì. Ma di quale stato? A quale fedeltà è stato tenuto o indotto? Qui non posso avere la stessa convinzione di sua moglie o dei suoi figli, benché mi dispiaccia terribilmente ferirne i sentimenti. Quello stato era fazioso, pronto a umiliare e a violentare. Lo so. Una volta uno dei suoi più alti esponenti venne a propormi un assassinio da eseguire in combutta, noi e i suoi affari riservati.

Nella primavera del 1969 ci furono una sequela di attentati a Milano. Erano fascisti e delle stesse mani che avrebbero colpito all’ingrosso il 12 dicembre a piazza Fontana. Furono accusati e incarcerati anarchici e persone di sinistra. Di quella indagine Calabresi fu uno dei principali autori. Per convinzione della colpevolezza degli anarchici, per fedeltà allo stato, per ambedue le ragioni o per una sola? Il 12 dicembre fu il perfezionamento di quella vicissitudine e lo stato, Roma e il questore Guida, vollero l’anarchico colpevole, e tocco a Pietro Valpreda e per sovrappiù a Pino Pinelli. Perché Pinelli? Perché viene tenuto illegalmente per tre giorni (il vicequestore Allegra fu amnistiato per questo reato)? Perché si dice di lui, perfino dopo lo schianto, che si è riconosciuto colpevole, che ha gridato: “E’ la fine dell’anarchia”, che è stato schiacciato dalle prove?

D’Ambrosio ha giudicato che Calabresi fosse uscito dal suo ufficio. Bene. Anni fa D’Ambrosio, tradito dalla memoria, disse che era stato l’anarchico Valitutti a confermare,: ma Valitutti aveva detto il contrario). Calabresi era fuori dalla stanza, a far firmare i verbali. E i quattro che nell’ufficio di Calabresi erano rimasti? Di cui D’Ambrosio accerterà che mentirono? E che non hanno più detto una parola? E che nessuno è andato a intervistare in un paese in cui dodici interviste non si negano a nessuno? Quello stato che abbandonò Calabresi durante il linciaggio di cui noi fummo la punta avanzata, dovette garantirsi bene la fedeltà degli altri quattro. E poi la sequenza dei processi, la ricusazione di un giudice colpevolista, le omertà…. Ce n’era abbastanza per agitare le notti dei paladini di vedove e di orfani. E un delitto commesso dallo stato è peggio di un delitto commesso da un privato. Il delitto privato coinvolge la responsabilità del suo autore, quello dello stato vuole rendere complice l’intera comunità. E’ vero che allora in tanti vedevamo la società così radicalmente spaccata in due parti , che noi stessi pensavamo che fossimo l’altro stato, ed evocassimo e usurpassimo una giustizia in nome del proletariato, e in anticipo sul futuro. (Diceva questo il mio comunicato dopo l’uccisione di calabresi, distorto in quell’inventato “giustizia è fatta”). Per questo si può avversare la pena di morte e compiere un’omicidio”(…).



Nessuno a risposto ufficialmente a Sofri, tranne, appunto Talese e Berardi, che fuori dal coro hanno tentato di capire più che di giudicare o celebrare.

Il primo attraverso le pagine de il Giornale fa un analisi pungente della risposta di Sofri definendo la lettera ambigua specificando che “In queste righe Sofri, con molta delicatezza, e molta prudenza, in sostanza, spiega che lui e gli altri di Lotta Conituna, e quelli che firmarono i loro appelli (sempre trattati con rispetto e distanza, a bene vedere, come se fossero gente che eccedeva di zelo) in fondo, hanno fatto quello che il contesto di allora purtroppo rendeva quasi inevitabile, e quello di oggi purtroppo rende quasi incomprensibile. A bene vedere, l’equivalenza degli estremi, annulla la dimensione della responsabilità e della colpa. Certo, c’era la vedova Calabresi, ma non c’era forse anche la vedova Pinelli? C’era la rabbia contro lo Stato (che Sofri, chissà se per retaggio di ex rivoluzionario redento ma pignolo, scrive sempre e comunque minuscolo), ma non c’erano le stragi di Stato, e gli assassinii di stato? E Calabresi poi, non serviva proprio questo stato? Non aveva accusato ingiustamente gli anarchici? Al giovane aspirante terrorista che vorrebbe scoraggiare dall’intraprendere la via del nuovo brigatismo, Sofri scrive una frase, che fa persino raggelare il sangue: “Per questo si può avversare la pena di morte e compiere un omicidio”. Compiere un omicidio? Chi? Sarebbe rozzo leggere questo impersonale come una rivendicazione postuma, certo, però Sofri ama molto la scrittura ambigua, e quindi anche questa ambiguità deve essere stata pensata e pesata, prima che il testo arrivasse in pagina”.

Bene, quel Sofri, oggi, secondo Talese “mostra di non aver cambiato idea. Per lui non c’era una verità su Ramelli (malgrado i rei confessi), come non c’è una verità su Calabresi (malgrado le sentenze che contesta). Per lui esistono delle inoppugnabili verità emotive e politiche che spiegavano e giustificavano la campagna Calabresi, e così, il fatto che il commissario sia stato accoppato per davvero diventa un dettaglio (nel senso che nulla merita di essere messo in discussione, alla luce di quello che è accaduto). Come se non fosse un fatto che dovrebbe far ripensare a tutto, agli appelli, agli editoriali infami, alle minacce di eseguire sentenze in pubblica piazza (e questa non è una frase inventata) pubblicate da Lc. Forse il Sofri di oggi mi sarebbe meno indigesto, se fosse un uomo più coraggioso. Se quella lettera, invece che a un presunto e anonimo giovinastro da catechizzare se la fosse spedita a se stesso. Se non finisse sempre per rivendicare ogni volta collettivamente e storicamente, e contemporaneamente assolvere ed autossolvere invidividualmente: lui non ha scritto, lui non ha fatto, lui non voleva, ma se qualcuno ha fatto, lo ha fatto perché c’era un motivo

Ma l’affondo arriva nel momento dell’arringa finale “a me questo Sofri pare molto vigliacco. Anche stavolta non ha detto perché loro, i ragazzi di Lc (cioè lui e i suoi) furono la punta avanzata della campagna di linciaggio. Ma anche quello lo dice quasi accidentalmente, mentre sta sottolineando che in realtà fu lo Stato ad abbandonare Calabresi. E poi non spiega perché scelsero proprio lui. Perché non Guida, perché non Improta. Non lo dice perché spiegare vorrebbe dire riconoscere l’arbitrio e la responsabilità vera, se non altro nell’aver individuato un bersaglio. E poi non dice quali parole della campagna infame scrisse materialmente lui, quali condivise, quali comandò. Ma ci fa l’elogio tenerò di Zamorin, che è morto e che era un bravo ragazzo (non ne dubito nemmeno io, ma non c’entra nulla). Per questo a me pare molto più coraggioso Erri De Luca quando dice “Io sono dentro con l’ultimo dei condannati perché so che chiunque di noi avrebbe potuto uccidere”, rispetto a Sofri, che ci spiega perché tutti avrebbero potuto uccidere, tranne forse lui, perché lui volava troppo alto ed era troppo superbo per curarsi delle miserie del mondo. No, non è coraggioso questo Sofri, ed è antipatico perché si dimentica sempre che lui, per quell’omicidio è condannato. Gli pare sempre un dettaglio, una cosa da tralasciare per farsi influenzare. Preferisce parlare come se fosse una fonte terza, un grande moralista. Affumicato dall’ambiguità che tanto gli piace. Preso dal fare la morale a tutti, si dimentica di farla solo a una persona: se stesso. La prossima volta, invece di scrivere ad un giovane apprendista assassino, scriva ad un ex leader extraparlamentare a cui piace atteggiarsi da Solone”.

Come avete potuto notare le parole di Talese criticano aspramente Sofri e lo fanno da un pulpito prettamente di parte e quindi come quelle di Sofri sono a volte dettate dall’appartenenza ad un passato ideologico.

Non smetterò mai di dire e di pensare che le ideologie sono una strada da seguire ma nulla ci impedisce di tornare indietro se la strada è senza uscita.

Al contrario Franco Berardi in arte Bifo con il suo “LE REGOLE, LA FORZA, LA VIOLENZA, L'ATTENZIONE” attraverso il forum rekombinant.org, fa un analisi lucidissima, anche se prolissa, non solo delle parole di Sofri ma anche di una condizione lavorativa che parte dallo splendido articolo di Sergio Bologna intitolato "Uscire dal vicolo cieco” di cui ho già ampiamente parlato in passato.

Secondo Bifo, “Sofri analizza i passaggi che possono portare un giovane dall'elaborazione ideologica antagonista, all'enunciazione di propositi sovversivi fino all'esecuzione di azioni violente, e ricostruisce il modo in cui ideologia parola e azione possono concatenarsi in modo quasi automatico portando a scelte irreversibili”.

Si tratta di un articolo molto bello e largamente condivisibile, ma del tutto inutile. Continua Bifo, “Sofri infatti si rivolge a una persona che non esiste più. La visione di una dialettica necessaria che giustifica qualsiasi violenza e qualsiasi sofferenza nella prospettiva dell'inevitabile progresso storico, portò in un tempo lontano migliaia di persone a compiere la scelta di una militanza ideologizzata che comportava anche l'uso delle armi. Ma quella visione non esiste più nella coscienza della nuova generazione, né più si manifesta quel tipo di concatenazione ideologica, enunciativa, e quindi pratica dell'azione violenta”.

Con ciò Bifo non vuol dire che la violenza, l'omicidio o la strage siano spariti dall'orizzonte attuale. E' vero il contrario. Quella che sta crescendo nel mondo, però, è un'ondata di violenza che non somiglia in nulla a quella che Sofri vuole scongiurare. Basta leggere le dichiarazione dei brigatisti arrestati in febbraio: ciò che li motiva non è affatto una analisi ideologica o una strategia politica, quanto la tristezza infinita della vita contemporanea, la disperazione la solitudine la miseria esistenziale.

E per rendere l’idea, prosegue dicendo “Provate a guardare la foto di quel dodicenne afghano che si arruola nelle milizie suicide di Al Qaida. Nel suo viso dolcissimo e stravolto dall'odio vi è una determinazione che nessuna predica non violenta può scalfire. A chi pensa quel ragazzino mentre prende il voto di uccidersi uccidendo? A un fratello ucciso da un bombardamento della Nato? Quante migliaia (quanti milioni) di ragazzini afghani, pakistani, palestinesi, iraqeni egiziani si stanno preparando a vendicare l'oltraggio la violenza l'umiliazione che l'occidente infligge a un miliardo di uomini donne bambini? Non capiamo nulla della violenza politica contemporanea e del terrorismo che tende a diventare un fenomeno di massa, se lo trattiamo come un problema ideologico. E' un problema psicopatologico. Il che non significa affatto che si tratti di un problema marginale, perché la psicopatia non è più (se mai è stata) un problema marginale. La decisione ideologica di altri tempi fu di pochissimi che si autonominarono avanguardia. La sofferenza disperata dei ragazzi che crescono nelle metropoli arabe o nei campi profughi o nelle banlieux europee o nella precarietà e nello sfruttamento non è di pochi, è un fenomeno epidemico”.

Ed è qui che Bifo cita Sergio Bologna dicendo che “è ora di piantarla, con l'idea che il precariato sia come il morbillo, una malattia adolescenziale che passa quando diventiamo grandi. Il precariato non è una marginale escrescenza ma la forma tendenzialmente generale del lavoro nell'epoca in cui le nuove tecnologie rendono possibile una disseminazione dello sfruttamento in ogni frammento spaziotemporale dell'esistenza umana. La precarietà non è un carattere provvisorio della relazione produttiva ma il cuore nero del processo di produzione capitalista nella sfera della rete globale. In essa circola un flusso continuo di info-lavoro frattalizzato e ricombinante. La precarietà è l'elemento trasformatore di tutto il ciclo di produzione: trasforma anche il lavoro di coloro che hanno un posto di lavoro fisso, ma sono costretti ad accettare un salario sempre più basso perché il lavoro precarizzato abbassa la forza contrattuale di tutti. Sergio Bologna invita a considerare il precariato in termini di classe, non in termini di generazione. Questo invito va accolto, ma il problema resta. Il fronte del lavoro non è mai stato così debole in termini di capacità contrattuale, in termini di organizzazione”.

Concordo in pieno l’analisi e le domande che Bifo pone, anche se è proprio qui che abbandona la risposta e inizia la sua analisi. "Occorre porsi una domanda: quali sono le forme di azione (di comunicazione, di lotta, di organizzazione e di sabotaggio) capaci di restituire forza al fronte del lavoro contro il fronte del capitale? Serve a qualcosa andare in piazza in mille o in centomila, dato che non abbiamo fermato la guerra quando eravamo centomilioni? Serve a qualcosa rafforzare elettoralmente la sinistra quando è evidente che il Parlamento non dispone più di alcuna forza effettiva di decisione? La democrazia rappresentativa non serve a niente, e nulla di ciò che i movimenti hanno fatto dopo l'inizio della crisi dei social forum ha avuto qualche utilità. Dobbiamo tornare a porci una domanda fondamentale: quali sono gli obiettivi di un movimento che si proponga l'autonomia della vita sociale dal dominio del capitale? e quali le forme di azione sono efficaci?"

Per questo, dice Bif, la questione delle forme di lotta è sempre stata decisiva. La lotta operaia non avrebbe mai ottenuto nessun risultato se gli operai non avessero avuto una forza capace di danneggiare materialmente il profitto. Fin quando il lavoro non è in grado di minacciare l'accumulazione la sua forza equivale a zero, e il padronato può fare qualsiasi cosa. La legge non esiste, non significa nulla e non può fermare la violenza padronale. Solo la forza conta. Una delle colpe del terrorismo stalinista degli anni '70, e non la più lieve, consiste proprio in questo: nell'aver condotto a un discredito etico totale ogni discorso sulla forza identificandola con la violenza, l'azione omicida, il terrore. Nel dibattito pubblico si fa un uso illegittimamente estensivo della parola violenza.

Due ragioni sconsigliano in generale l'uso della violenza nell'azione politica dei movimenti. La prima ragione è semplice, quasi triviale. Nella società moderne esistono organizzazioni professionali specializzate nell'esercizio della violenza, strutture altamente addestrate dotate di armi letali e di tecnologie pervasive di controllo e di annientamento, strutture che addestrano al disconoscimento di ciò che vi è di umano in sé e negli altri. Organizzazioni criminali al servizio dello stato e dell'economia”.

Infatti “nessuna persona che desideri mantenere il rispetto di se stessa può affrontare la violenza dello stato e dell'economia sul terreno del confronto armato, se non una organizzazione decisa al suicidio. Come sappiamo l'armata dei suicidi è in crescita costante, e la guerra infinita è una macchina di riproduzione del suicidio micidiale. Chiunque non aspiri al suicidio capisce che la strada della violenza è tecnicamente interdetta per cause di forza maggiore”.

La seconda ragione che sconsiglia la violenza ha carattere meno triviale. La violenza contro l'altro inibisce la possibilità stessa di percepire felicemente il sé. La ferita inferta sul corpo altrui lascia una traccia che distrugge le facoltà stesse di congiunzione con l'altro. La violenza è azione che colpisce ciò che è umano nell'altro, la sua debolezza. Poiché l'altro è l'estensione psichica della mia mente, poiché l'altro non è dissociabile dalla mia sensibilità, la violenza colpisce chi la compie, lo ferisce e lo infetta in ciò che ha di più umano, la sua tenerezza. Chi giustifica la violenza in nome di valori superiori (che ne so, la legalità o la rivoluzione, la civiltà occidentale o l'antimperialismo) compie un'operazione che è sempre truffaldina. Ma anche coloro che si sperticano nella condanna politica della violenza e nell'esaltazione dei valori della non violenza compiono un'operazione truffaldina. E' come esaltare o condannare il mal di denti”.

L'espressione non violenza è una cattiva traduzione della parola Satyagraha, parola che per Gandhi significa conversione dell'altro per mezzo dell'amore. Per essere più precisi: Satya è la verità dell'essere, agraha è l'andare verso. Andare (insieme) verso la verità dell'essere. Nella versione jainista che ne offre il Mahatma, questa conversione passa attraverso l'ahimsa, che significa sofferenza cosciente. Scrive Gandhi:

"Le nazioni come gli individui si costruiscono attraverso l'agonia della croce e in nessun altra maniera. La gioia nasce non dall'infliggere dolore sugli altri, ma dal dolore che volontariamente generiamo in noi."

Per Gandhi dunque Satyagraha implica e presuppone Brahmacharia, cioè la rinuncia alla passione, l'assenza di desiderio, la sospensione del flusso illusorio del maja. Si tratta di una visione essenzialmente sacrificale, che ben difficilmente può tradursi in un'etica laica, e affermarsi nella vita quotidiana. Ma io penso che si possa far discendere Satyagraha dal sentimento contrario: dal sentimento di piacere che nasce dalla condivisione sensuale degli infiniti corpi. Il piacere di sentire gli altri, che permette di sentire con piacere sé stessi”.

Continua Bifo “la continuità dei diecimila esseri, la condivisione del medesimo spazio ecomentale, della medesima psicosfera non è solo la quintessenza del Buddhismo, ma è anche il senso profondo del pensiero di Baruch Spinoza. Se non vuole ridursi a pura retorica l'etica non può fondarsi su null'altro che sulla consapevolezza sensibile del carattere estensivo del nostro corpo-mente. E' un'etica estetica, quella che dobbiamo fondare. Un'etica che non sia basata sulla rinuncia al sé, ma proprio su un edonismo estensivo, capace di riconoscere il carattere condiviso dell'ambiente in cui è immerso l'organismo sensibile”.

Nel discorso politico-giornalistico occidentale il pensiero del Satyagraha (che è insieme realismo politico ed etica del piacere di sé) viene abusivamente usato per affermare un principio legalitario: non violenza viene tradotto abusivamente come rispetto della legge esistente, come sottomissione al potere. La non violenza diventa allora un'arma brandita contro gli oppressi, un ricatto schifoso. Coloro che sistematicamente usano la violenza predicano alle vittime la necessità della non violenza”.

La legge, solo la legge - dicono i legalisti - può regolare i rapporti fra gruppi sociali. Il conflitto non deve uscire dai limiti della legge. Chi dice questo ignora (o finge di ignorare) che la legge è forma determinata di un rapporto di forze, che solo la forza la fonda e solo la forza la rende operativa. Le corporation globali lo sanno bene, dato che il capitalismo distrugge sistematicamente le regolazioni esistenti per aumentare lo sfruttamento”.

La forza, non la legge, permette al capitale di imporre condizioni precarie di lavoro, riduzione del salario, rinvio della pensione e così via. La forza ha permesso al capitalismo di costruire condizioni schiavistiche di sfruttamento. La cosiddetta libertà di mercato altro non è che lo spazio libero di scatenamento della forza violenta del capitale nel rapporto con la debolezza del lavoro”.

Solo quando i lavoratori sono forti, uniti, consapevoli, autonomi, il loro rapporto con il capitale pone limiti alla violenza. Grazie al rapporto di forza creato con le lotte il movimento operaio ha potuto realizzare un quadro regolativo capace di limitare l'arbitrio del capitale e di imporre condizioni eque di salario. Il benessere diffuso e le condizioni di democrazia sociale che si affermarono in larga parte del mondo nella seconda metà del Novecento furono il prodotto di una imposizione operaia. E quel che oggi rimane delle garanzie sociali per i lavoratori è l'eredità non ancora interamente erosa e cancellata di quelle lotte.

Conclude Bifo, (…) senza gli scioperi, senza il sabotaggio, senza il ricatto costante che il lavoro seppe esercitare sulle forze proprietarie, le condizioni del lavoro sono quelle dello sfruttamento bestiale, della miseria e della prepotenza. Oggi quelle forme di azione hanno perduto efficacia. Cosa significa sciopero per i lavoratori precari? Dobbiamo scientificamente ricercare forme attuali di azioni che siano capaci di colpire a fondo l'accumulazione di capitale, e quindi capaci di ricostituire la forza contrattuale del lavoro.

L'illusione legalitaria crede che la regola costituzionale abbia in sé forza impositiva. Ma il potere è sempre assoluto. Non esiste alcun potere costituzionale, perché la limitazione del potere non è esercitata dalle regole ma dalla forza capace di imporre le regole (o di trasformarle). Il legalismo attribuisce alle regole una forza che le regole non hanno, perché non c'è nessuna regola che dica che occorre rispettare le regole. E il padronato lo sa.

L'ipercapitalismo è un'economia criminale non tanto perché si fonda sulla violazione delle regole stabilite dalla contrattazione tra lavoro e capitale. La violazione delle regole non è un crimine (se non nella visione autolesionista dei legalisti). Il crimine sta nell'esercizio illimitato della forza, quando alla forza non si contrappone alcuna altra forza. Il crimine è la violenza dell'imposizione lavorativa, la sottomissione del sesso, dell'affettività, del tempo mentale, la repressione dell'autodifesa operaia. Il crimine è la normalità dell'economia del nuovo millennio. Gomorra, il libro di Roberto Saviano, il più importante testo di economia politica contemporanea che io conosca, descrive molto bene il modo in cui il crimine ha raggiunto il cuore stesso della crescita capitalista.

Il problema della forza non potrà non riproporsi nei movimenti sociali se essi vorranno uscire dalla pura e semplice denuncia e se vorranno creare condizioni efficaci di difesa e di nuova regolazione. Ma il problema della forza non dovrà porsi mai più negli antichi termini della violenza materiale, sui quali mai nessuna battaglia potrà mai essere vinta dall'umano contro il disumano. Il problema della forza si pone nei termini del sabotaggio intelligente nei confronti della rete immateriale dello sfruttamento. Solo quando l'immaginazione collettiva sarà capace di sottrarsi al ricatto economico e consumista diverrà possibile esercitare una forza capace di sabotare bloccare e sovvertire i circuiti dello schiavismo postmoderno. Solo quando l'umanità schiavizzata saprà distinguere tra la ricchezza e la merce si ricostituiranno le condizioni di una forza capace di resistere alla violenza del capitale. Non ci resta da svolgere altro lavoro che questo: l'organizzazione della forza, cioè della tenerezza, della pigrizia, dell'assenteismo di massa.

Solo la forza può opporsi alla forza economica mediatica e militare di cui dispone il capitale. Ma la forza cos'è?

La società è forte di fronte al potere quando riconosce la illegittimità dei poteri esistenti. Ridere del potere è la prima condizione per distruggerlo. Ogni occasione in cui il potere si organizza andrebbe ridicolizzata, non solo i vertici del G8 ma anche le locali riunioni della Confindustria, le riunioni del Senato accademico, e qualsiasi altra occasione in cui si normalizza l'infamia.

Ma ridicolizzare on basta, occorre interrompere il flusso economico di riproduzione del potere. Lo sciopero è stato nel corso di un secolo e mezzo la forma più importante di Satyagraha. "io non ti dò il mio lavoro fin quando non accetti di pagarmi un salario più alto, finché non sono realizzate sul lavoro condizioni umane." Ma la trasformazione del processo lavorativo ha reso lo sciopero inefficace (perché le catene produttive sono flessibili) e impossibile perché il lavoro è precario frattale ricombinato e sovrabbondante.

Il Semiocapitalismo ha bisogno dell'attenzione di un'umanità iperconnessa. L'azione che accumula forza è lo sciopero dell'attenzione, il rifiuto massiccio della partecipazione politica, la messa in circolo di virus comunicativi capaci di indurre nella maggioranza tendenziale una nuova percezione della ricchezza. La ricchezza cos'è? E' godimento del tempo, sfrenatezza intensiva, piacere di sé. Un'onda di rilassatezza e di rallentamento del ritmo della produzione dipendente, un'onda di frenesia an-economica. La felicità è sovversiva quando si fa collettiva. Trasformando la felicità in una promessa sempre rinviata il capitalismo ha azzerato la capacità di godere dell'adesso. La questione del godimento e della frustrazione, dell'ansia accumulativa e della frugalità felice è la condizione per uno sciopero dell'attenzione che tolga al capitale gli strumenti del suo ricatto e della sua forza
(…)


Fonte: Adriano Sofri per il foglio, Luca Talese per il giornale (http://www.cuorineri.it/diario/?p=53), Franco Berardi "Bifo" su http://www.rekombinant.org/. Etichette:

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