undefinedundefinedI potatori di rose (1)



Guardando Sky TG24 riflettevo sul perché due esponenti della maggioranza astenendosi hanno mandato per aria la coalizione nell’unico giorno in cui un leader politico, sia di destra che di sinistra, abbia fatto qualcosa che in Italia non è certo usuale: ha parlato con nettezza, e lo ha fatto ripetutamente.

Ha detto fuori dai denti, rivolto ai turbolenti soci della sua coalizione militanti nella sinistra radicale, che un governo che si rispetti deve potersi reggere su una propria maggioranza in politica estera; che su un tema così decisivo non sono ammissibili apporti dell'opposizione; che se non si sta su questa strada allora l'unica alternativa è quella di abbandonare la partita. Non solo. D'Alema ha fatto di più: su ciò che andava dicendo ha deciso di impegnare la propria personale immagine di uomo di Stato. Dando una lezione di quella che si chiama «responsabilità politica», e insieme una lezione altrettanto importante di moralità politica, ha fatto chiaramente capire che in caso di sfiducia al suo operato di sicuro egli non avrebbe potuto restare al suo posto.

Il resto lo sapete, la bagarre da stadio in parlamento con tanto di volantini fatti volare in aria, le dimissioni di Prodi e le dichiarazioni dei due astenuti che non hanno fatto raggiungere il quorum al governo (di fatto non si può parlare di minoranza, perché nessuno ha votato contro):

Turigliatto di rifondazione che ha detto “sono Stufo di dire sì a cose che mi fanno schifo, voglio lasciare, a casa ho centinaia di rose da potare.”
E Rossi ex senatore di PDCI “Cavolo, pensavo, se il governo è andato sotto a causa mia, è davvero dura... Io meglio di chi trascura 30 mila afgani”.

Al primo mi viene da dire, chi le ha mai impedito di rinunciare al suo incarico e al suo stipendio per tornare a casa e potare le sue cento e passa rose ?
Al secondo consiglio di abbandonare i luoghi comuni (ma chi trascura gli afgani ?) e non sorprendersi se il governo casca per causa sua, perché non è certo una novità che in Senato la maggioranza ha un solo voto in più dell’opposizione.
Ad entrambi dico che noi coglioni di basi americane non ne vorremmo neanche mezza, ma sappiamo che se governano gli altri di basi americane ne avremo il triplo, cari i miei idealisti.

Mi delude profondamente essere rappresentato da queste persone che non hanno un minimo di amore per lo stato. Questa gente, come la stragrande maggioranza dei politici in parlamento, non deve essere votata perché sono baciapile ed inciucisti.

Siamo Italiani ed in questo momento siamo tutti ciò che ci meritiamo, come la copertina di Libero di questa mattina, volgari e qualunquisti, tifosi e idealisti, ma soprattutto ciechi.

In politica non si può tifare, bisogna saper giudicare e solo dopo scegliere, anche contro i propri ideali.

Questo vuol dire aiutare il nostro paese.

Via i Prodi e i Berlusconi. Via unioni e case delle libertà.

Voglio credere che l’Italia, quella vera, sia un'altra, quella NOSTRA e non di questi cialtroni. Etichette:

undefinedundefinedil DNA digitale (0)

Dura la vita per i pirati e per i produttori di DIVX dei giorni nostri, accomunati dallo stesso destino.

Il mondo del cinema potrebbe presto adottare una misura davvero dura da eludere per proteggere i propri film da copie e diffusioni non autorizzate. E’ in arrivo il Dna digitale per l’audio: si tratta di un software in grado di riconoscere il materiale protetto da copyright prelevandone il dna.

Durante la presentazione, i creatori di questa tecnologia sono stati in grado di “riconoscere un frammento da “Kill Bill: volume 2″ ben nascosto all’interno di una clip di due minuti, mossa e di cattiva qualità, quasi priva di colore e con dialoghi in cinese, scaricata da YouTube“.

Il sistema è stato sviluppato dalla Audible Magic. In pratica prende le impronte digitali del file incriminato, lo confronta con l’audio e il video presenti in banche dati. E ne riconosce la firma digitale. L’allarme scatta quando si tenta di mettere online un file protetto da copyright, questo viene bloccato. Sempre che il sito adotti questo filtro.

Finora ha accettato Myspace (c'erano dubbi?): anche Youtube dirà di sì? Etichette:

undefinedundefinedIkea, quando l'abito non fa il monaco. (0)



Dietro l'immagine di un'azienda "etica" si nasconde ben altro sfruttamento. Ikea Dopo aver installato negozi in Russia e in Cina - mercati promettenti - il gigante svedese Ikea ha comunicato, in ottobre, che non intende aprirne in India «per via della legislazione eccessivamente vincolante per le imprese straniere». Il gruppo si accontenta di fabbricarvi i prodotti, senza vincoli - soprattutto sindacali - pagando ogni lavoratore 1,60 euro al giorno... Quattrocentodieci milioni di clienti in tutto il mondo, centosessanta milioni di cataloghi distribuiti (superata la diffusione della Bibbia): Ikea, la multinazionale del prêt-à-habiter, gode di buona salute.

E il suo fatturato prosegue lungo l'impressionante spirale positiva: 3,3 miliardi di euro nel 1994, 14,8 milioni di euro nel 2005. Ovvero, un aumento di oltre il 400%. Difficile fare di meglio. Oggi, la società punta a conquistare due territori che finora le hanno resistito: la Russia e la Cina.

Come scrive il periodico interno Read Me: «L'obiettivo è migliorare la vita quotidiana del più gran numero di persone possibile.Per riuscirci, i negozi devono vendere sempre di più a sempre più persone (1)»....Per Ikea, la felicità del popolo passa per l'acquisto.

Ikea riesce a schivare gli attacchi delle associazioni dei consumatori, degli altermondialisti e degli ambientalisti: singolare, per una multinazionale che rappresenta a tal punto l'omologazione planetaria e il mercantilismo. Un risultato non da poco. Occorre ammettere che l'azienda è riuscita a creare un legame speciale con i suoi clienti, grazie a prezzi imbattibili, alla realizzazione nei negozi di spazi per i bambini, e a un mondo progettato per trovare tutto subito (e preferibilmente ciò di cui non abbia bisogno).

Non mancano gli aneddoti per illustrare l'unione tra clienti e impresa. Non si udì forse un consigliere municipale di Stockport (Gran Bretagna) esclamare nel 2004: «Un'Ikea nel territorio del nostro comune, questa è la gloria (2)!» A fare eco a tanto entusiasmo, gli abitanti di Mougins, una cittadina francese, hanno lanciato una petizione: «Se anche voi non ne potete più di passare due ore in macchina e di fare più di duecento chilometri (andata e ritorno) per fare spese in un negozio Ikea, prendete al volo l'occasione che vi offriamo perché finalmente venga aperto un negozio Ikea nelle Alpes-Maritimes (3)!». Tutto ciò non suscita ammirazione? Persone che lanciano una petizione (oltre duemila firme nell'agosto del 2006!), che affermano i propri valori, che si mobilitano... perché non c'è una succursale della multinazionale del mobile entro un raggio di duecento chilometri.
Un simile successo può avere conseguenze più drammatiche.
All'apertura di un negozio in Arabia saudita, l'1 settembre 2004, l'azienda regalava un assegno di 150 euro ai primi cinquanta clienti e una folla vi si precipitò: due morti, sedici feriti, venti malori.
Come spiegare l'infatuazione mondiale per Ikea? Oltre ai bassi prezzi, una chiave del successo risiede nell'immagine di sostenibilità ambientale e sociale che la multinazionale ha costruito. Dopo il primo subappalto straniero (la Polonia, nel 1961), Ikea delocalizza una parte delle sue produzioni, alla ricerca di manodopera economica e sfruttabile. Perciò la percentuale della produzione realizzata in Asia è in continuo aumento. Attualmente, la Cina (celebre per il rispetto dei diritti dei lavoratori...) supera la Polonia, tanto da rappresentare il maggior fornitore della società, con il 18% dei prodotti del gruppo. In totale, il 30% del «made in quality of Sweden» proviene dal continente asiatico (4). Secondo The Observer, la percentuale della produzione realizzata nei paesi in via di sviluppo è cresciuta dal 32% al 48% tra il 1997 e il 2001 (5). Sin dalle origini, il gruppo svedese puntò a proporre prodotti a «prezzi estremamente bassi». Nel 1976, nel suo «Testamento di un commerciante di mobili», il fondatore Ingvar Kamprad lo ha dichiarato: «Non dovrà essere lesinato alcuno sforzo pur di mantenere le tariffe ai livelli più bassi (...), questi prezzi bassi, ancora oggi giustificati, impongono dunque vincoli formidabili a tutti i nostri collaboratori (...). Senza una rigida limitazione delle spese, non riusciremmo a compiere la nostra missione (6)».

Sindacati? Inconcepibile! Però, contrariamente a quanto afferma Ikea, i bassi prezzi hanno avuto - e hanno tuttora - un costo sociale notevole. Tra il 1994 e il 1997, tre reportage delle televisioni tedesche e svedesi (7) hanno accusato l'azienda di impiegare bambini in condizioni degradanti in Pakistan, India, Vietnam e Filippine. L'Asia non ha il monopolio dello sfruttamento «ikeano»: nel 1998, dopo la denuncia delle penose condizioni di lavoro in Romania, il sindacato dei lavoratori del legno e dell'edilizia, l'International Federation of Building and Wood Workers (Ifbww), ha minacciato il boicottaggio della multinazionale, raggiungendo alla fine la firma di un accordo tra i sindacati e il gruppo (si legga l'articolo nella pagina accanto). L'Iway - così si chiama il codice di condotta di Ikea in materia ambientale e di condizioni di lavoro - vieta ad ogni fornitore l'utilizzo di lavoro forzato e infantile. Il punto 7 («Salute e sicurezza degli operai») specifica le condizioni di lavoro dei dipendenti, che devono indossare le necessarie protezioni per la produzione. Esso tutela anche la facoltà dei dipendenti di organizzarsi in sindacato o in altro tipo di associazione, a cui il sub-fornitori non devono opporsi.

Inoltre: non è tollerata alcuna discriminazione sulla base di genere, provenienza geografica, status ecc. A livello retributivo, infine, nessuno deve essere pagato meno del minimo salariale fissato a livello nazionale. Il carico orario di lavoro settimanale non può oltrepassare il limite legale. Redigere un codice di condotta per annunciare semplicemente che si segue la legge può apparire bizzarro. Come se qualcuno dichiarasse solennemente di essere pronto a guidare a sinistra in Gran Bretagna. Tuttavia, l'impatto dell'Iway è stato positivo sulle condizioni di lavoro dei dipendenti delle imprese di subappalto? Per quanto riguarda il lavoro dei bambini (argomento sensibile per le coscienze occidentali), Ikea ha sicuramente sradicato tale pratica nei «suoi» stabilimenti, anche se l'Iway preferisce basarsi sulle leggi locali e precisa che «le legislazioni nazionali possono consentire l'impiego di persone tra i 13 ai 15 anni o dai 12 ai 14 anni per lavori leggeri (8)».

Per l'organizzazione degli operai in collettivi o in sindacati, o per il pagamento degli straordinari, è un altro discorso. Così, nel corso di un viaggio, nel maggio 2006, in un villaggio vicino a Karur, un centro tessile indiano del Tamil Nadu, nel sud-est del paese, abbiamo tentato di incontrare i dipendenti di un'azienda subappaltatrice. Shiva (9), sulla trentina circa, vorrebbe rispondere alle poche domande del visitatore occidentale ma la madre, un'anziana indiana dai capelli bianchi, è preoccupata. E se Shiva perdesse il lavoro? Il suo salario rappresenta l'unica risorsa della famiglia, composta, oltre che dalle due donne, dal figlio dell'operaia, un adolescente di 15 anni. Non c'è nulla di cui aver paura, tuttavia. La giovane donna in realtà non critica il suo datore di lavoro. Racconta di pause-tè, di protezioni per gli occhi e per le mani. Evoca un ambiente sano. E ciò è vero.«Ikea offre condizioni migliori, non c'è dubbio», afferma Maniemegalai Vijayabaskar, professore assistente al Madras Institute of Development Studies. Lo studioso, che ha collaborato a una ricerca (10) commissionata da Oxfam-Magasin du monde sui fornitori della multinazionale del mobile, aggiunge comunque: «Si creano un volto umano per evitare critiche e controversie. Ma non fanno molti sforzi per migliorare le condizioni di lavoro». Le condizioni di lavoro? A prima vista, sono buone. I locali sono puliti e areati. Ci sono le pause-tè e materiale di qualità. Infine, l'Iway è affisso sulle pareti dell'azienda. Ma... nel 2003, il sindacato olandese Fnv ha commissionato all'organizzazione non governativa olandese Somo, specializzata in valutazione sociale delle multinazionali, un'inchiesta sui fornitori di Ikea in tre Paesi: l'India, la Bulgaria e il Vietnam. Per ciascun caso, i ricercatori hanno incontrato gli operai di tre o quattro imprese e hanno realizzato interviste al di fuori del luogo di lavoro. Hanno visitato gli stabilimenti e parlato con i quadri delle aziende.

Le conclusioni si riferiscono a dieci fornitori, che contano circa duemila dipendenti. Somo constata: «Si evidenziano ancora numerose violazioni del codice di condotta Ikea in tutti e tre i paesi e in tutte le imprese studiate». Le infrazioni più frequenti riguardano la libertà di associazione, il diritto alla contrattazione collettiva, i salari e gli straordinari. Nella situazione peggiore: nessun sindacato, sette giorni di lavoro su sette, salario minimo non rispettato. E ovviamente nessuno conosce i propri diritti e gli impegni della multinazionale del mobile. Storia antica? Da quanto abbiamo potuto constatare in India nel 2006, presso i fornitori in subappalto di Ikea non esiste alcun sindacato. Ufficialmente, la presenza sindacale è tollerata ma, ad ascoltare Shiva, non sarebbe necessaria: «Quando c'è un problema, ci riuniamo e ne discutiamo. Di solito per ricevere istruzioni sulla pulizia dei bagni, per esempio. E se ho un'esigenza, posso comunicarla al responsabile». Forse per la giovane età di Xana, un'altra operaia, e l'assenza di bambini da sfamare, la risposta suona diversa: «Un sindacato? No, non accetterebbero. E se ci sono controlli nella fabbrica, i padroni ci ripetono le bugie da ripetere...».

La situazione non è anormale in questa regione. Ogni iniziativa sindacale è soffocata alla nascita. È proprio questa la situazione che cercava Ikea, come ogni multinazionale che si stabilisce in India. Essa consente salari particolarmente bassi. Shiva dice di guadagnare 2.300 rupie al mese (40,20 euro). Paga 500 rupie (8,70 euro) al mese per recarsi in autobus al lavoro. Alla fine, questa retribuzione è sufficiente per vivere? Shiva sorride pudicamente. Quando la madre cucina davanti alla casa, la ricetta è sempre la stessa: «Si mangia in modo semplice, zuppa o soprattutto riso col sugo». E la carne? «Sì, una volta a settimana, la domenica. Ma non questa domenica perché è la fine del mese». L'incontro si è svolto il 20 maggio 2006.

ll codice di condotta Ikea non dà da mangiare ai dipendenti. Non fornisce nemmeno l'arredamento. Non vediamo scaffali Billy o letti Malm... l'abitazione di Shiva è spartana: due camere, qualche calendario sul muro, foto in bianco e nero, due materassi, due piccoli bauli come guardaroba. Un orologio, qualche rappresentazione religiosa. Quando le ho chiesto cosa farebbe con 1.000 rupie in più al mese, Shiva ci ha descritto il suo modesto sogno di benessere: «Prenderemmo una cucina con una bombola di gas. Cucinare sul fuoco è difficile, con tutto questo fumo negli occhi. Nella stagione delle piogge, è difficile trovare legna secca. E raccogliere la legna è un lavoro duro». La povertà di Shiva non è un'eccezione nell'universo dei fornitori di Ikea. Piuttosto, è la regola. Un'altra operaia, Manjula, sposa recente, ci dice che guadagna 2.360 rupie (41,40 euro) al mese. Ma, come esempio, ci mostra le buste paga di ottobre 2005, e questa somma rappresenta l'importo lordo (in tutte e due le accezioni di questa parola) da cui detrarre due assicurazioni previdenziali e un'assicurazione sulla vita. Dopo qualche calcolo, le 2.360 rupie iniziali sono scomparse. Perciò, Manjula ha lavorato ventiquattro giorni in ottobre e ha intascato 1.818 rupie (31,80 euro). Nonostante lavori sei giorni alla settimana, sfiora la soglia di povertà estrema. E tutto nel rispetto del codice di condotta «ikeano»...

Per sbarcare il lunario, gli operai aumentano le ore di straordinario. «Lavorano dodici ore al giorno. Senza considerare la durata del tragitto per recarsi al lavoro - precisa Vijayabaskar. Durante i picchi di produzione, possono arrivare a lavorare anche quindici ore al giorno». Ikea cerca di ridurre le ore di straordinario, ma la pressione che deriva sia dalle scadenze degli ordini che dal bisogno di denaro rendono inevitabile questo sovraccarico di lavoro. Le otto ore al giorno di lavoro vanno dalle 9.30 alle 13.30 e dalle 14.30 alle 18.30. Ma, nel cuore di un quartiere popolare di Karur, Kalaya deve precisare: «Se fai delle ore di straordinario dalle 19 alle 20 o alle 21, non ti vengono pagate. Se lavori fino alle 22.30, ti danno 50 rupie in più (0.87 euro). Di solito, il lavoro straordinario si fa due volte alla settimana». Assam che lavora nello stesso posto ci garantisce che non ci sono straordinari nella sua impresa. La sera stessa, le macchine lavorano di notte e, appostati all'ingresso, vedremo le squadre entrare in fabbrica fino alle 20. A dimostrazione del fatto che i discorsi vengono edulcorati dalle scadenze e dalla paura di perdere il lavoro. Deenosha dice di avere un reddito supplementare. Non fa in tempo a rivolgerci la parola all'uscita dalla fabbrica, che già si scusa. Ha un altro lavoro dalle 20 all'una del mattino. Guadagna 80 rupie (1,40 euro) più il vitto. In effetti, per Ikea Shiva, Kalaya, Deenosha sono «costi da limitare in maniera rigida». Tanto che, per consegnare gli ordini in tempo, i subfornitori subappaltano a loro volta. Inapplicato dai fornitori diretti di Ikea, l'Iway diventa a quel punto una totale astrazione. Nessun controllo, nessun requisito, nessun limite se non la scadenza della consegna.

Ma anche tra i fornitori ufficiali il controllo del rispetto del codice di condotta rimane estremamente lacunoso. Chi svolge i controlli? La maggior parte (il 93%) è realizzata dai quarantasei uffici acquisti di Ikea disseminati in trentadue paesi. La formazione di questi uffici è garantita dal Compliance and Monitoring Group (Gruppo di controllo e di conformità), una struttura della multinazionale svedese dedicata alla verifica dell'applicazione del codice. Anche il Compliance and Monitoring Group, composto da cinque persone (erano tre nel 2004) che assistono i controllori degli uffici acquisti di Ikea, effettua dei controlli. Cinquantatré, nel 2005 (11). Gli esaminatori esterni, come Kpmg, PricewaterhouseCoopers e Intertek Testing Services, hanno effettuato solo sette controlli nel 2004. La multinazionale del mobile riconobbe che il numero era esiguo ma assicurò che «il 2005 sarà diverso, con un elevato numero di controlli svolti da terzi (12)».

Il numero «elevato» è ora noto: arriva a ventisei controlli esterni sui 1.012 realizzati. La linea rossa del lavoro dei bambini Inoltre, i pochi controlli indipendenti si basano in parte sul sistema di controllo interno introdotto da Ikea. Gli esaminatori non possono pubblicare i loro studi, di cui rendono conto direttamente ed esclusivamente alla direzione del gruppo. Tutte le verifiche, che si svolgono ogni due anni (ogni sei mesi o un anno per l'Asia), richiedono uno o due giorni. I novanta criteri dell'Iway vengono passati al setaccio. Per otto ore al giorno, ciò corrisponde a un criterio ogni dieci minuti e quaranta secondi. Come verificare che non c'è pressione contro la formazione di un sindacato in dieci minuti? E le ore di straordinario? E il regolare pagamento dei salari? E il rispetto delle pause? E il lavoro forzato? Il lavoro dei bambini? Semplice. Si chiede al padrone. Si consultano i registri dell'impresa. O peggio, si chiede all'operaio all'interno della fabbrica. Le persone che realizzano queste ispezioni sono forse sincere e volonterose, ma le condizioni in cui vengono poste non permettono un controllo serio. Il metodo, dunque, è per lo meno «leggero» e sfavorevole alla libera espressione degli operai sulle loro condizioni di lavoro, tanto più che questo «controllo» si svolge contemporaneamente al controllo di qualità dei prodotti. Toneesh, ispettore qualità, ha visto due volte gli esaminatori di Ikea l'anno scorso: «Fanno qualche domanda, soprattutto sulla qualità dei prodotti, per verificare la produzione. Sono indiani, di Delhi o di Madras. Ma ci sono anche europei, che però si rivolgono solo ai dirigenti di livello superiore. A causa della lingua, i lavoratori non possono parlare direttamente con loro».

L'operaio Kalaya conferma: «Ieri, è venuto un uomo di Ikea. Ci ha mostrato un video sulla preparazione del prodotto di qualità. E ha posto alcune domande, ma solo sul prodotto». Probabilmente non è questo il tipo di domande che eviterà a Kalaya le ore di straordinario non pagate... Di conseguenza, la politica di Ikea si limita a introdurre qualche addolcimento nello sfruttamento presso i suoi sub-fornitori. Certo, i dipendenti hanno acqua filtrata a disposizione, guanti, bagni separati e, a volte, persino le pause-tè. Ma bere il tè non aiuta il lavoratore ad arrivare alla fine del mese e appena emergono le vere questioni sociali - come i salari, la presenza dei sindacati, le ore di straordinario - il tono, come abbiamo visto, muta rapidamente. A trarre il massimo profitto dalla responsabilità sociale rappresentata dal codice di condotta non è... l'impresa stessa? Da un lato, come ricorda Vijayabaskar, «Ikea ha scaricato i costi della sua politica sociale sui suoi fornitori». Dall'altro, essa può rivalutare la sua immagine attraverso questo impegno a costo zero, mantenendosi con una precisione da metronomo appena sopra la soglia di tolleranza per l'Occidente: il lavoro dei bambini. Questi progressi sono acquisiti a buon mercato tanto più facilmente in quanto gli impegni dell'Iway non appaiono affatto vincolanti.
La presunta responsabilità sociale di Ikea non riesce nemmeno a sottrarre alla miseria totale alcuni suoi dipendenti. Per proclamarsi davvero «etica», la multinazionale dovrebbe consentire una vita decente ai lavoratori. E non parliamo di lusso, di televisione o di telefono cellulare. Ma di mangiare carne più spesso, di non dover ritirare dalla scuola i propri figli per mancanza di denaro, facendogli perdere un anno scolastico, di non dover mettere insieme due lavori, di godere di un vero giorno di riposo senza dover recuperare tutti i lavori di casa di una settimana. Per non dire di consentire che Shiva si offra un piccolo lusso tra gli scaffali di Ikea...

Olivier Bailly, Jean-Marc Caudron, e Denis Lambert, rispettivamente giornalista, ricercatore e segretario generale di Oxfam-Magasin du monde (Belgio), autori di "Ikea, un modèle à demonter", Luc Pire, Bruxelles, 2006, 108 pagine, 15 euro.Olivier Bailly, Jean-Marc Caudron, e Denis Lambert

Fonte: http://www.chainworkers.org

NOTE:
(1) Read Me, rivista internazionale interna di Ikea, n. 1 marzo 2006. (2) «Un Ikea o niente!», dossier «Ikea: la secte mondiale du kit», Courrier International, n. 722, Parigi, 2-8 settembre 2004. (3) www.ipetitions.com/(4) Ikea, «Social & environmental responsibility report 2005». (5) «Trying to assemble a perfect reputation», The Observer, Londra, 25 novembre 2001. (6) Frasi tratte dal «Testamento di un commerciante di mobili», citato in estenso nella biografia autorizzata di Ingvar Kamprad: Bertil Torekull, Un design, un destin. La saga Ikea, Michel Lafon, Parigi, 2000. (7) Il documentario tedesco Mattan è citato da Manuel Balza e Davor Radojicic, «Corporate social responsibility and nongovernmental organizations», Avdelmng, Linköping, 30 gennaio 2004. I reportage svedesi sono stati citati da Susa Christopherson e Nathan Lillie, «Neither global nor standard: Corporate strategies in the era of new labor standard», University of Oxford, novembre 2003, e Lowry Miller, Piore Adam e Theil Stefan, «The Teflon shield: Trench war», Newsweek International, 12 marzo 2001. Cfr. anche «Ikea accused of exploiting child workers», BBC, Londra, 23 dicembre 1997. (8) Iway Standard, point 15. (9) Poiché diverse persone intervistate hanno manifestato il timore di perdre il lavoro se fossero state riconosciute, tutti i nomi dei lavoratori sono stati cambiati. (10) Disponibile su www.madeindignity.be. (11) Ikea, «Social & Environmental responsibility report 2005». (12) Ibid. Etichette:

undefinedundefinedIl Mauro Furioso - parte 2 (0)



Carissimo Mauro, solo oggi apprendo attraverso internet che la liberalizzazione della vendita dei carburanti e dei quotidiani non è più materia del decreto Bersani-bis.

È quanto si rileva dalla seconda bozza del provvedimento entrata il 25 Gennaio in Consiglio dei ministri. La possibilità di installare distributori negli esercizi commerciali (e quindi negli ipermercati) non è più contemplata dal testo così come l’abolizione del criterio della distanza minima per l’apertura di una stazione di servizio. Identico destino ha avuto anche l’apertura dei canali di distribuzione di quotidiani e periodici.

Sarai contento dunque di sapere che la tua cara edicola rimarrà il tempio dell'informazione. Non ti nascondo che sono contento per te, ma rimango, come ormai più frequentemente, basito.

Basta un accenno di sciopero e leggi e decreti vengono ridiscussi o eliminati del tutto (leggete taxi). Ora non voglio dire che sarà lo stesso anche per gli edicolanti o i benzinai anche perchè il disegno di legge che si accompagnerà al decreto probabilmente recupererà queste norme. Ma certo lo sciopero previsto per questa settimana dai Benzinai lascia presagire tutt'altro.

Ora mi domando, caro Mauro, ma se domani mattina io e te scendiamo in piazza insieme ad altri 2 o 3 milioni di persone e scioperiamo contro le tasse credi che le abolirebbero ? E se si, pensi che sia la cosa giusta ?

Un antico proverbio diceva: più forte è il vento, più forte è l'albero.
Ora vorrei capire chi è il vento e chi l'albero. Etichette:

undefinedundefinedUn venerdi a Catania (0)



E' solo una palla, quando lo capirete ?

Che Guevara diceva che vale la pena di lottare solo per le cose senza le quali non vale la pena di vivere. Vale la pena comportarsi cosi per una palla ? Etichette:

undefinedundefinedI nuovi strozzini ? (0)



Gli americani vivono sempre più in un mondo fatto di carte… di carte di credito.

Un rapporto allarmante pubblicato di recente svela che, poiché i costi dell’assistenza sanitaria continuano ad aumentare notevolmente, i pazienti a basso e medio reddito ricorrono con una frequenza allarmante alle loro carte di credito per garantirsi cure mediche che altrimenti non potrebbero permettersi.

Questo debito assistenziale, che in molti casi deve essere saldato a tassi di interesse altissimi, va a gravare sul debito del consumatore che si trova già a livelli pericolosamente alti. Molte famiglie sono state schiacciate dal debito, sbattute fuori dalle loro case, costrette alla bancarotta e ad altre cose peggiori.

Il rapporto, diffuso la scorsa settimana, è stato redatto dal Demos, un gruppo di assicurazioni civili a New York, insieme all’Access Project, che è affiliato ad un istituto di previdenza sanitaria alla Brandeis University e sta cercando di estendere l’accesso all’assistenza medica negli Stati Uniti.

Immaginate per un momento un paziente gravemente ammalato che necessita di essere ricoverato in ospedale. Nella nuova e fredda realtà dell’assistenza sanitaria, il primo messaggio dato a questo tipo di paziente è spesso “ Fammi vedere i soldi”.

In molti casi, ovviamente, il paziente non possiede i soldi. Ciò che il rapporto ha scoperto è che persino le persone con una assicurazione vengono dissanguate dai costi dell’assistenza sanitaria al punto che la loro carta di credito appare come l’unica scelta.

Il rapporto afferma che, aumentando le spese detraibili e i ticket, gli ospedali si ritroveranno con sempre più pazienti incapaci di far fronte alle loro spese mediche. Alcuni analisti che si occupano di amministrazione ospedaliera, si aspettano un aumento dei pazienti che si auto-finanziano e si stanno preparando a livelli ancora più alti di insolvenza.

In riconoscimento dell’evolversi del sistema di pagamento e del rischio del debito ospedaliero inesigibile, coloro che si occupano di assistenza sanitaria stanno cercando in modo sempre più aggressivo di riscuotere anticipatamente ticket e spese detraibili. Parte di questa strategia consiste nell’incoraggiare i pazienti ad utilizzare prestatori per conto terzi, come le carte di credito per pagare spese mediche che non possono sostenere, cosa questa che le famiglie fanno spesso per fronteggiare parcelle mediche elevate.

Una cosa però è allungare la mano per afferrare la tua Visa o Mastercard per pagare una Barbie o una tv a schermo piatto, un’altra è estrarre la tua carta di credito perché hai appena saputo di avere il cancro o una cardiopatia, e non hai altro modo per pagare una cura che potrebbe evitarti un viaggietto prematuro nell’aldilà.

Una società non funziona affatto come dovrebbe nel momento in cui gli strozzini legalizzati vengono incoraggiati a circuire gli squattrinati o coloro i quali sono seriamente ammalati. Questo indebitamento sanitario non sorprende molto. I costi dell’assistenza sanitaria continuano ad aumentare in modo molto più veloce rispetto al reddito delle famiglie e all’inflazione e gli americani (che hanno smesso del tutto di risparmiare) erano già stati messi in difficoltà dilazionando nel tempo quantità ingenti di debito personale. Alcune famiglie hanno inserito nelle loro carte di credito anche le spese dal droghiere. In molti hanno fatto il passo finanziariamente rovinoso di utilizzare i mutui sul capitale edilizio per abbassare i saldi a debito sulla carta di credito.

Una grave malattia per le persone che si trovano già in condizioni economiche precarie può rappresentare la spinta finale verso la bancarotta.

Secondo il rapporto, intitolato “Indebitarsi per star bene”, circa il 28% delle famiglie a basso e medio reddito con debiti ottenuti con la propria carta di credito, utilizza quest’ultima per far fronte a spese sanitarie , in molti casi per gravi problemi di salute.

Nell’insieme un bel 20% delle famiglie a basso e medio reddito indebitate con la propria carta di credito, ha dichiarato di averla utilizzata per coprire importanti spese sanitarie nel corso degli ultimi tre anni.

Questo indebitamento, soggetto a tasse mensili saldate in ritardo, penali e tassi di interesse che possono raggiungere il 30%, va ad aggiungersi al trauma di una grave malattia.

Si ritiene che 29 milioni di americani siano oppressi da un debito sanitario di un tipo o dell’altro. Persone già gravate da parcelle mediche che non possono pagare, con molta probabilità si ritrovano a rifiutare ulteriori cure e a lasciare in bianco le ricette. Decisioni di questo tipo hanno conseguenze pericolose sulla vita.

Negli Stati Uniti è in atto un’epidemia di bancarotte private e si ritiene che le cause mediche giochino un ruolo importante nella metà dei casi.

Questi sono problemi che richiedono una riforma: del sistema americano di assistenza sanitaria e del conseguente meccanismo di indebitamento che minacciano seriamente il sistema di vita del paese. Infine, per farla breve, dobbiamo proteggere i pazienti finanziariamente deboli dall’universo delle carte di credito in cui non esistono limiti legali a penali ed interessi e dove l’abuso dei clienti è una consuetudine.

fonte: Bob Herbert, New York Times. Etichette:

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A settembre 2006 gli assistenti di volo Ryanair, di base a Ciampino (Roma), inoltrano alla compagnia irlandese la richiesta di riconoscimento di appartenenza ad un sindacato di categoria. Un diritto fondamentale sancito dall' articolo 14 dello statuto dei lavoratori. La richiesta sarà vana, 10 lavoratori sono licenziati, e altrettanti si licenzieranno dopo la comunicazione che li obbliga ad un trasferimento immediato alla base di Marsiglia in Francia. Il contratto Ryanair non prevede nessuna interlocuzione sindacale e di conseguenza l'iscrizione dei dipendenti a tali associazioni è assolutamente bandita. Parte immediatamente un ricorso legale per comportamento anti-sindacale (ex art. 28 della Legge 300/70), depositato al Tribunale di Velletri. La data dell'udienza è fissata per il 21 dicembre 2006. Ma gli avvocati di Ryanair non si presentano e il Giudice decide di posticipare la data al 23 gennaio 2007. Udienza che, ancora una volta, non ha seguito nell'esplicazione legislativa. Motivazione: manca il translator, cioè colui che avrebbe dovuto rendere comprensibile le voci tra le due parti.

Già a novembre 2006 il sindacato Sult, ora Sdl (Sindacato dei Lavoratori intercatergoriale), aveva sollecitato le autorità italiane, dagli ispettorati del lavoro fino all'anti-trust, affinchè si procedesse ad una verifica contrattuale e normativa adottata dalla compagnia irlandese. Una richiesta sollevata anche dagli stessi assistenti di volo Ryanair , in forma anonima per paura di ripercussioni da parte della compagnia irlandese, i quali denunciavano una condizione lavorativa al di fuori di ogni norma legislativa e alla quale ogni compagnia operante nel suolo nazionale dovrebbe attenersi. Una conseguenza di un' incontrollata deregulation che ha, di fatto cancellato completamente i diritti dei lavoratori. Il 24 gennaio 2006, dopo le denunce avanzate dal Sindacato dei Lavoratori intercatergoriale, Mario Ricci, Ezio Locatelli e Sergio Olivieri, deputati Prc, depositano un'interrogazione parlamentare. Il contenuto è molto chiaro ed esplicito. Bisogna far chiarezza sulle condizioni a cui sono sottoposti i lavoratori italiani nella Ryanair che operano in qualità di assistenti di volo, e i quali non sono regolarizzati dalle normative italiane.

Per entrare a far parte della famiglia di Michael O'Leary (che poi sarebbe quello che abbraccia l'aereo nella foto), è necessario, dopo aver presentato domanda di assunzione, frequentare un corso della durata di 45 giorni. Il costo complessivo è di 1300 euro, completamente a carico del neo assunto. Il contratto viene prima stipulato con un'agenzia di lavoro, la Crewlink o la Workforce per la durata variabile che si attesta solitamente sui 12 mesi, e successivamente si firma direttamente un nuovo contratto con la Ryanair. Quest'ultima apre un conto in banca al proprio dipendente con la Bank of Ireland, dove verserà lo stipendio. Ad ogni dipendente sarà consegnato la relativa carta bancomat valida nel circuito internazionale. Niente banca italiana, niente controlli.

La contribuzione è erogata in due tranche, per 12 mensilità. Il 10 di ogni mese è versato il basic, cioè la paga base attorno agli 800 euro, mentre il 28 viene versata la somma equivalente dell'effettivo lavoro svolto,(le ore volate), più le commissioni vendite, (10%), circa 400 euro. Con il contratto Ryanair, il basic verrà successivamente recapitato a casa con assegno, mentre il restante addebitato sempre il 28 nel conto della banca irlandese. Gli addebiti fissi mensili sono 30 euro per la divisa, e 30 euro per ogni giorno di assenza, in caso di malattia. Una giustificazione sullo stato di salute dovrà essere obbligatoriamente redatta ogni giorno durante il corso della malattia. La normativa italiana prevede che al personale navigante sia rilasciata a fine malattia un certificato di idoneità, per garantire lo stato psicofisico dell'interessato e senza la quale non è possibile continuare a svolgere la propria mansione. Ma la sola ed unica visita medica generica sarà affrontata dal dipendente Ryanair durante il training di 45 giorni. Nessun'altra visita sarà obbligatoria. Non viene rilasciato nessun brevetto di primo soccorso che ne attesti la validità sul territorio nazionale. Ma non è tutto. Non viene rilasciato nemmeno il certificato internazionale di vaccinazione prevista dall' Oms (Organizzazione Mondiale della Sanità), che obbliga ogni 10 anni la profilassi della febbre gialla per tutti i naviganti. Ma anche questa regola non fa parte della politica della Ryanair. Come le norme di sicurezza stabilite dall'Enac, (Ente Nazionale per l'Aviazione Civile), che sanciscono la certificazione degli equipaggi sul piano della sicurezza e delle mansioni svolte a bordo di un aeromobile.

La tassazione è versata interamente in Irlanda. In pratica i dipendenti sono esenti da Irpef e Inps, e difatti non hanno assistenza medica, e a fine rapporto di lavoro non avranno versato nessuna quota ai fini pensionistici. In pratica sono disoccupati per lo stato italiano. Se negli ultimi 15 anni i nostri imprenditori hanno delocalizzato la produzione all'estero, con conseguenti costi del personale bassissimi, Michael O'Leary ha trovato il sistema per arricchire le sue casse in barba a tutte le leggi che regolarizzano un rapporto di lavoro. Biglietti stracciati...diritti negati.

fonte: Alessandro Ambrosin. Etichette: